giovedì 15 febbraio 2007

Il mendicante di Oporto

Ha un faccia strana il mendicante seduto sui mattoni del marciapiede. Sembra bruciata dal sole. Ma vista da vicino è come le fiamme l’avessero consumata, arrostendola a fuoco lento. Eppure quel povero cristo non fugge il caldo d’agosto che pure sembra infastidirlo. Se ne sta lì, a far contrasto ai muri bianchi del cimitero, con una gamba in meno e le braccia straziate da ferite profonde ancora non completamente rimarginate. Dal portone di ferro nero del piccolo camposanto alla periferia di Porto stanno entrando tre persone vestite di nero. Dagli abiti sembrano povera gente, dai volti gente straziata dal dolore di una morte recente. Due sono donne. Una è sulla sessantina. L’altra molto giovane, la regge. Sono precedute da un ragazzo alto e magro, quasi curvo che tiene le mani nelle tasche posteriori dei calzoni piegando all’indietro i gomiti ossuti. Solo quando i tre sono molto vicino al medicante si rendono conto che il sorriso ruffiano che sembra aver stampato in volto, come fanno molti per commuovere i passanti e strappare qualche moneta, è in realtà pelle tirata dal fuoco a lasciar scoperti i pochi denti che gli sono rimasti. Non tende la mano e i suoi occhi scurissimi non implorano ne’ denaro ne’ compassione. Sono, piuttosto, pieni di orgoglio e colmi di un’espressione severa che pare rabbia. La donna più anziana si ferma e apre il portafoglio semi vuoto. Frugandoci dentro trova tre monete e le tende al mendicante mentre la giovane donna volta la faccia per il ribrezzo delle condizioni dell’uomo. Il velo di pizzo nero le si appiccica al volto bagnato di sudore. “Per la memoria di mio marito” dice la donna anziana. Ma l’uomo bruciato non tende la mano per prendere il denaro. Il ragazzo è ormai dieci passi avanti. Si volta e si ferma. Non ha il tempo di capire quello che sta succedendo. Segue l’istinto di ripararsi dietro una lapide. “Per la memoria di mio marito” ripete l’anziana faticando a chinarsi per posare a terra le sue monete mentre la vestaglietta scura copre malamente i suoi goffi movimenti ormai non più assistiti dalla figlia. La giovane è portata le mani alla bocca. Nemmeno lei fa in tempo a capire, né ad urlare di paura o di disperazione. Il mendicante ha infilato la mano sotto il sacco vuoto che sembrava gettato al suo fianco per raccogliere gli oboli e ha tirato fuori un vecchio fucile. Con una velocità insospettabile assesta due colpi precisi e cancella il pellegrinaggio al caro estinto della famiglia dolente trasformandolo in un massacro. “Tuo marito – dice l’assassino alzandosi lentamente, mentre con un lembo dei suoi stracci si pulisce il viso dove gli è schizzato il sangue delle donne – stai sicura che non lo dimenticherò”. Biascicava appena, quel poco che gli consentiva la faccia corrosa dall’acido che gli era piovuto addosso, che si era rovesciato sulla sua casa, che aveva ucciso, arso vive, quasi sciolto, la moglie e la figlia quando l’autista della cisterna, ubriaco, aveva perso il controllo ed era uscito fuori strada morendo sul colpo. La cisterna si era staccata dalla motrice e si era ribaltata su una povera casa che stava a valle della strada. Il falso mendicante ha terminato il suo lavoro. Abbandona lì il fucile, prende le sue stampelle e se ne va. Il giovane, unico superstite, mette fuori la testa dalla lapide dietro la quale si era riparato e guarda la madre e la sorella riverse a terra, morte. Cade seduto, sotto choc. Mentre tira fuori la fiaschetta del Maciera che tiene nel gilet fa in tempo a vedere sulla lapide che l’ha protetto la foto di una madre che stringe a se’ la sua bambina. Legge: “Morte per l’acido e per un uomo ubriaco. Il marito e padre promette giustizia”.

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