giovedì 15 febbraio 2007

Lo scialle bianco - Vilanova de Gaia

Ragazzini, canottiere sbilenche e sdrucite, corrono svelti giù per la discesa fatta di gradoni di cemento. Stasera si balla, si canta, si mangiano frittelle calde e pesce fritto. L’odore arriva già sino qui e intanto il cielo si stria di rosso, d’arancio e di viola. Tra poco ci saranno i fuochi d’artificio. Il caldo è insopportabile, anche se ormai è sera. Le case bianche sono tutte a un solo piano. Poverissime, con gli avvolgibili abbassati o raccolti fuori dalle finestre. Qua usa così. Se la luce è accesa puoi sbirciare tra le tendine acriliche e vedere mobili pieni di foto di parenti morti o troppo lontani. Le luci si spengono una dopo l’altra: bisogna uscire e correre al porto, tra le luminarie ricche della festa di ogni povero paese, manifestazione ingiustificata di un’opulenza che non c’è. Ma è la festa della Madonna e bisogna far finta che ci sia. Insomma, almeno una volta l’anno. A costo di rinunciare alla camicetta nuova che si potrebbe fare con quel taglio di stoffa visto in città, al mercato. Si spengono le luci e si accende la musica. E’ ora di raggiungere i bambini, là in basso. Sì, la musica si accende, rimbalza sui costoni di roccia, arriva a vibrare sul tramonto che si attarda sulle barche di legno e giunge fino all’altra sponda dove i turisti stanno seduti ai ristorantini della ribeira. E’ un tramonto da cartolina fatto di luci che si accendono sullo sfondo del sole che si spegne: lo spettacolo della civiltà che sfida lo spettacolo della natura. Malgrado il caldo, l’aria è tersa e il profilo nero della città, punteggiato di lampioni, ritaglia il rosso del cielo. Se non fossi di cattivo umore direi che è tutto così romantico. La gente corre alle mie spalle. Sento gli zoccoli dei bambini sul cemento e il ticchettare delle scarpe scomode della festa, quelle col tacco, delle signore. I rumori mi raggiungono. Ancora qualche momento e potrò arrivare a vedere ciò che fino ad ora ho solo intuito. Tacchi, suole e zeppe che si affrettano, superano il gomito della curva, infine si allontanano. Ora sono di nuovo soltanto rumori. Io non ho fretta, la festa non mi attende, non sa che sto arrivando, non sa nemmeno che esisto. No, non c’è qualcuno che mi aspetta, qualcuno che mi tenderà un bicchiere di vino rosso, fuoco delle anime semplici, stordimento per una serata di abbandono tra frange di poveri scialli a coprir le spalle dal vento della sera mentre il suono di una vecchia chitarra soppianta lo stereo e comincia a recitare la sua poesia, quando il sole è ormai cancellato dalla notte e i fuochi accesi su quella riva del Douro hanno già raccontato a Porto che a Gaia è una notte di festa. Passa un’ora e le famiglie risalgono. Mamme e papà hanno i bimbi in braccio, con le guance appiccicate alle spalle sudate. Loro guadagnano faticosamente le porte delle case e io posso finalmente scendere, guidato dalle note di quel chitarrista che mi sta incantando, pifferaio magico del mio immaginario troppo spesso decapitato dalle contingenze della quotidianità. Cerco una favola. Immagino là infondo quello che non c’è e che non ci può essere. Questa volta voglio che il sogno prevalga sulla ragione. E’ per me uno sforzo grande perché devo rinunciare al mio senso critico, devo acconsentire a una semplificazione frazionaria del mio intelletto, della mia complessità. Ho già ceduto alle lusinghe del rosso del tramonto commovendomi senza una vera ragione, ho ascoltato il rimbombare dei fuochi d’artificio con lo stesso timore di quando ero bambino. Ho ricordato l’odore di fritto della festa del mio paese. Solitamente non mi piace aprire le porte a queste emozioni perché mi proietta indietro nel tempo e mi priva di vent’anni di studi, esperienze, condizionamenti sociali ai quali solitamente non amo rinunciare perché, lo so, questa strada mi porta a quello che ero prima di studiare, di leggere, di conoscere, di vivere. Eppure stanotte voglio dimenticare tutto e cedere all’emozione. Quando arriverò all’ultimo gradino della discesa voglio vedere te, i tuoi riccioli neri gettati all’indietro per una risata che ti scuote anche il petto. Voglio vedere il tuo scialle bianco in mezzo a quelli neri delle altre donne. E voglio immaginarmi mentre ti cingo la vita e contemporaneamente ti reggo, perché quel mio gesto improvviso non ti sbilanci. Voglio vedermi con gli occhi semichiusi per l’alcol e l’eccitazione aspettare il resto della notte che sta arrivando mentre tu mi accarezzi con un dito la fronte, il naso, le labbra. Voglio ricordare quel giorno in cui, ultimo nel tempo, ti immaginai come eri prima di ammalarti e mi accontentai di averti lì, povero corpo vuoto. Per l’ultima volta potevo vedere i tuoi riccioli bruni e il tuo naso affilato prima di chiudere te nella bara e me nel più completo isolamento. Prima di fare del lavoro la mia unica, inutile, ragione di vita. Ora fa freddo. Si è alzato il vento. Le luci sono quasi tutte spente. Qualcuno si affretta a raccogliere cartacce e bicchieri vuoti. Rimane solo la puzza di fritto, nauseante, che impesta ogni angolo del paese. Sorrido. “Lo so, lo so che non devo brontolare”. E’ come se ti rispondessi. E’ tardi. Una ragazza mi viene incontro. I suoi lunghi riccioli neri cadono su uno scialle bianco. Probabilmente è solo il solito sogno.

2 commenti:

pirritantes ha detto...

Visitem:

http://portugueses-irritantes.blogspot.com/

e ajudem a eleger aquele que será considerado como o mais irritante de todos os portugueses pelos seus próprios compatriotas.

PARTICIPA!

Giorgio Boratto ha detto...

Brava Monica, mi hai trasmesso una forte emozione. E questo è il primo tuo racconto nel giro del mondo...